I risultati della COP 28 sull’ambiente; perché è importante anche per la Sardegna

Sì è appena chiusa a Dubai la 28° Convention of Parties (COP), ovvero l’incontro tra tutti i governi del mondo che hanno firmato la Convenzione di Kyoto prima e di Parigi poi, impegnandosi ad agire per limitare l’aumento della temperatura globale.
Il fallimento e l’inazione sono stati il marchio caratterizzante le COP che si sono susseguite negli ultimi 30 anni, con grande scoramento degli scienziati che lanciavano sempre più frequenti grida d’allarme per una temperatura media del pianeta che sale sempre più, al punto che oggi sappiamo di dover lottare per contenerla entro gli 1,5 gradi di aumento.
Non è un vezzo della scienza: a lanciare grida di allarme sono anche tutte le popolazioni che vivono negli atolli del Pacifico già parzialmente sommersi dal mare, i poveri delle regioni semidesertiche di varie parti del mondo che vedono modificato il regime delle precipitazioni e si trovano senza più acqua per le coltivazioni e gli animali che garantivano loro, già in precedenza, la sola sopravvivenza, costringendoli a diventare “migranti climatici”. E questo non riguarda esclusivamente il Sud del Mondo: è di pochi giorni fa la notizia che i ricchi di Miami, che un tempo vivevano sulla costa dell’Atlantico, stanno cominciando ad acquistare abitazioni nei quartieri poveri della città che posti più lontani dal mare sono meno a rischio di alluvioni costiere. Peccato che l’aumento di domanda, abbia determinato un aumento dei prezzi medi delle abitazioni di questi quartieri facendo presagire l’insorgere di un ennesimo caso di “gentrification”, con i poveri costretti ad andarsene dai loro quartieri perché diventati troppo costosi per loro.

Nonostante tutte le premesse e alcuni inciampi nel percorso, la COP 28 ha finalmente dato un segnale positivo a scienziati e popolazioni già afflitte dalle conseguenze del clima. Come riassunto da Emanuele Bompan, giornalista di Materia Rinnovabile ed esperto delle COP, la dichiarazione conclusiva (la c.d. Global Stock Take) ha stabilito che i paesi aderenti dovranno:
a) Triplicare la capacità di energia rinnovabile a livello globale e raddoppiare il tasso medio annuo globale di miglioramenti dell’efficienza energetica entro il 2030;
(b) Accelerare gli sforzi verso l’eliminazione graduale dell’energia prodotta dal carbone;
(c) Accelerare gli sforzi a livello globale verso sistemi energetici a zero emissioni nette, utilizzando combustibili a zero e a basse emissioni di carbonio ben prima o entro la metà del secolo;
(d) Abbandonare (transitioning away, no phase-out) i combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere zero emissioni entro il 2050 in linea con la scienza;
(e) Accelerare le tecnologie a zero e basse emissioni, comprese, tra l’altro, le energie rinnovabili, il nucleare, le tecnologie di abbattimento e rimozione come la cattura, l’utilizzo e lo stoccaggio del carbonio, in particolare nei settori difficili da abbattere, e la produzione di idrogeno a basse emissioni di carbonio;
(f) Accelerare e ridurre sostanzialmente le emissioni diverse dal biossido di carbonio a livello globale, comprese in particolare le emissioni di metano entro il 2030;
(g) Accelerare la riduzione delle emissioni derivanti dal trasporto stradale impiegando varie modalità, anche attraverso lo sviluppo delle infrastrutture e la rapida diffusione di veicoli a zero e a basse emissioni;
(h) Eliminare gradualmente, quanto prima possibile, i sussidi inefficienti ai combustibili fossili che non affrontano la povertà energetica o le semplici transizioni.
Per la prima volta quindi si scrive nero su bianco che occorre abbandonare le fonti fossili, tutte, nessuna esclusa. LA COP si era aperta con un buon risultato, il finanziamento del cosiddetto fondo Loss and Damage, che deve garantire il sostegno economico per il risarcimento dei danni causati dagli eventi estremi del cambiamento climatico.

Tutti contenti, quindi? Assolutamente no. La critica più rilevante che viene mossa all’accordo è che non è stato stabilito un budget per la transizione energetica: come ha rilevato il rappresentante del Bangladesh, si sono messi a budget cifre rilevanti per coprire i danni, ma se si investe per contenere il rialzo della temperatura entro gli 1,5 gradi di aumento si avranno meno danni da risarcire. Come sottolineato da numerosi paesi in via di sviluppo, poco viene detto sulla necessità che le popolazioni dei paesi ricchi cambino il loro stile di vita, riducendo le emissioni emesse e c’è il rischio che la necessità di triplicare la produzione di energie rinnovabili si trasformi in una nuova forma di colonizzazione. Viene ribadito con forza che per affrontare seriamente e definitivamente il problema dell’aumento medio della temperatura globale è indispensabile che i paesi in via di sviluppo si siedano allo stesso tavolo dei paesi sviluppati ma con le stesse prerogative e non in una posizione subalterna. Come ha ribadito il delegato dell’’Unione Europea, la giustizia climatica e la tutela della biodiversità e degli ecosistemi non sono questioni sulle quali si può negoziare.

Quanto è importante per noi questo accordo?
Tantissimo. La gran parte della popolazione sarda vive nei comuni costieri. È sulle coste che si trovano la maggior parte delle infrastrutture rilevanti, come porti e aeroporti, nonché le principali attività economiche dell’Isola. E in alcune parti del nostro territorio già si comincia a vedere l’effetto dell’aumento del livello del mare.
Uno studio pubblicato recentemente da Nature dice che entro il 2100 (cioè esattamente quando i nostri figli e nipoti che oggi vanno alle elementari avranno l’età nostra o dei nostri genitori o nonni) si perderà il 9,2% dei servizi ecosistemici – cioè i benefici diretti e monetizzabili che gli ecosistemi offrono all’uomo – con una riduzione media dell’1,3% del PIL mondiale pro capite, con profonde disuguaglianze nella distribuzione degli impatti: il 50% più povero dei paesi e delle regioni del mondo dovrebbe sopportare il 90% dei danni al PIL, mentre le perdite per il 10% più ricco sarebbero limitate ad appena il 2%.

Vania Statzu

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