“Sanità, i sardi non ci credono più”

–Riproponiamo questa interessante intervista fatta di recente da L’Unione Sarda al presidente delle Acli della Sardegna Mauro Carta in merito alla rilevazione SWG-Iares.
Buona lettura e buon Ferragosto!–

Stiamo male, stiamo peggio e nel futuro non ci crediamo più. La pandemia è finita ma in Sardegna ne portiamo ancora i segni, morali più che fisici: ci ha lasciato ammaccati, e i pilastri che ci sorreggevano vacillano. La sanità, più di tutti. Secondo una rilevazione Swg per le Acli, elaborata dallo Iares (l’istituto di ricerca dell’associazione), il 22% dei sardi ritiene che la propria condizione sia peggiorata nell’ultimo anno, e il 36% è insoddisfatto della situazione economica. I due dati salgono rispettivamente al 30 e al 42% nella sola area metropolitana di Cagliari. Per il resto, rimane alta la fiducia verso forze dell’ordine, scuola e università, volontariato; bassa verso Stato, Regione, partiti e sindacati. Ma ciò che colpisce è il divario di fiducia, tra Sardegna e resto d’Italia, nella sanità pubblica: se nella media nazionale il 52% dichiara di nutrire molta fiducia o abbastanza, tra i sardi il dato crolla al 39.
«La pandemia ha inciso molto», ragiona Mauro Carta, presidente regionale delle Acli, commentando la ricerca: «Strutture un tempo efficienti ora sono in grandi difficoltà, pensi al Brotzu. Chi non ha risorse non riesce a prenotare visite anche urgenti».
La carenza di medici basta a spiegare tutto ciò? «No. È vero che manca il personale, ma è vero anche che quello che c’è è demotivato e sotto stress. Dopo il Covid non c’è stato un sollievo: sono saltati turni, schemi, regole. E così si fugge verso il privato o la pensione».
Il Covid ha colpito tutta Italia: a cosa addebita il gap di fiducia tra i sardi e il resto del Paese? «Una delle ragioni è che, se la sanità pubblica non dà risposte, devi rivolgerti al privato, ma non ci sono soldi; o andare fuori dalla regione, che per i sardi è sempre complicato. Poi c’è la crisi dei servizi di cura della persona e assistenza, sempre più difficili da trovare, specie nei piccoli centri».
Per quale motivo? «Un po’ perché la guerra ha bloccato gli arrivi dall’Est Europa, molto rilevanti nel settore. E le badanti che sono già qui preferiscono vivere nei centri urbani, anche per potersi frequentare tra loro: quindi, per spostarsi nei piccoli paesi, chiedono compensi più elevati».
I Comuni non riescono a sopperire? «Figurarsi, mancano anche gli assistenti sociali. Soprattutto nel Sud Sardegna, perché il corso di laurea è a Sassari e i pochi professionisti di solito vengono assorbiti da quei territori. Spesso li si recluta da altre regioni».
Questa carenza che problemi crea ai Comuni? «Non si può garantire l’assistenza agli invalidi, gestire le pratiche per le varie situazioni di disagio delle famiglie, attuare i Plus, cioè i piani dei servizi alla persona. E potrei continuare».
Dalla ricerca emerge più disagio tra chi vive nell’area metropolitana di Cagliari. Vi ha sorpreso? «Un po’ sì, perché è l’area col maggiore reddito pro capite. Ma è anche quella dove si è fatta sentire di più la crisi, in particolare con l’aumento del costo della vita. Affitti, bollette, beni di consumo quotidiani. Molte famiglie ci dicono che non riescono a fare la spesa».
La dimensione metropolitana dovrebbe in teoria garantire più opportunità e concorrenza. «Ma crea anche più disservizi, o un accesso più difficile a servizi come quelli per l’infanzia. Il problema dei trasporti è cruciale. Per difendersi da traffico e inquinamento molte famiglie vorrebbero insediarsi nella cintura metropolitana, talvolta rientrare nei paesi d’origine: basterebbe magari poter andare al lavoro in treno. Non lo fanno per i trasporti inefficienti».
La Regione ha varato alcune misure contro lo spopolamento. Funzionano? «Possono avere qualche efficacia di breve termine, ma non è con misure spot che si contrasta il fenomeno. Se non crei le condizioni strutturali perché famiglie e imprese possano vivere e crescere nei piccoli centri (trasporti, banda larga, microcredito e così via), a medio-lungo termine avrai solo sprecato risorse».
Quanto vi scontrate col fenomeno del lavoro povero, gli occupati che non arrivano a fine mese? «Ogni giorno. Molti giovani non possono avere un mutuo casa, non hanno risorse per investire in un’impresa. E se nza il ricambio generazionale vanno in crisi agricoltura e artigianato».
Però molte aziende non trovano le professionalità che cercano. È per via delle condizioni di lavoro che propongono? «Non sempre. Il nodo è la formazione. Abbiamo trascurato molte professionalità. Poi certo, oggi i ventenni sognano di fare gli influencer, non i manovali o anche mestieri meglio retribuiti, pensi ai falegnami. Servirebbe un grande piano per accompagnare i giovani alla scelta del percorso lavorativo».
L’immigrazione come incide su questi aspetti? «Potrebbe aiutare ma incontra troppi ostacoli burocratici. Un esempio: pochi si sono accorti che negli ultimi tre anni sono arrivati in Sardegna più di 500 argentini, tra i 23 e i 35 anni, in fuga dalla crisi nel loro Paese. Molti laureati, ci sono psicologi, esperti di economia aziendale, alcuni già pronti per lavorare nelle nostre imprese. Ma il riconoscimento dei titoli non è immediato, e allora ripiegano sul turismo e la ristorazione».
Come sta cambiando l’immigrazione nell’Isola? «Ci sono varie novità. Tra queste, oggi qui c’è la seconda maggiore comunità di kirghizi in Italia, quelli ufficiali sono 1.500, ci supera solo la Campania. Anni fa arrivarono i primi, si sono trovati bene e hanno fatto i ricongiungimenti familiari. Sono laboriosi, pacifici, coesi. Anche tra di loro molti sono diplomati e laureati».
Nella rilevazione, cosa l’ha colpita in positivo? «La fiducia nel sistema dell’istruzione. Che però dovremmo sfruttare meglio. Penso ad esempio che le università sarde potrebbero incentivare l’arrivo di studenti stranieri. Ma anche che le istituzioni dovrebbero immaginare una sorta di Master&Back al contrario, per far tornare i figli degli emigrati sardi».
Un’associazione come la vostra, che contributo può dare su questi temi? «Proprio per gli emigrati, un nostro sportello aiuta chi vuol rientrare a capire come usare, nell’Isola, le competenze acquisite fuori. Poi ci rivolgiamo molto ai giovani, con proposte come il servizio civile, i camp, i percorsi di educazione non formale. Occasioni in cui ragazze e ragazzi possono elaborare idee, simulare attività d’impresa e fare esperienze che saranno utili nel mondo del lavoro».
Quali argomenti, dal vostro punto di vista, dovrebbero essere al centro della campagna elettorale per le Regionali? «Oggi molte persone non sono felici di vivere in Sardegna, malgrado la bellezza di quest’isola. Tutti devono porsi il problema di eliminare i gap sociali e tra i territori, per garantire a tutti gli stessi diritti e la possibilità di lavorare, fare impresa, vivere in maniera soddisfacente in questa terra».

Intervista di Giuseppe Meloni, pubblicata su L’Unione Sarda del 30 luglio 2023

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